venerdì 29 giugno 2012

Le paludi della morte (2012)

TRAMA
Texas City. Mike e Brian sono due agenti della omicidi, alle prese con un serial killer che abbandona i corpi straziati delle sue vittime, alcune delle quali giovanissime, in un'area paludosa e maledetta: i cosidetti “killing fields”. Nonostante la scena del crimine sia fuori dalla loro giurisdizione, e Mike inizialmente cerchi di convincere il collega a lasciar perdere, l'agente Brian si sente in dovere di indagare su quei terribili delitti e fermare l'assassino. Quando sparisce Anne, la ragazzina del posto che Brian ha preso sotto la sua protezione quasi fosse una figlia, inizia una lotta contro il tempo e un viaggio anche metaforico nelle oscure e fangose paludi della società americana. Dopo il successo di critica di Morning, la figlia di Michael Mann riprende l'idea del viaggio esistenziale ma la inscrive senza sbavature nel quadro di un genere tra i più esigenti e regolati quale è il poliziesco. La regia è solida e robusta, per quanto lontana dal riscrivere in qualsiasi modo i contorni della specie d'appartenenza. La scrittura è più ordinaria, non solo negli snodi narrativi ma soprattutto nei dialoghi. Il film funziona al meglio, allora, dove non servono troppe parole, come nella costruzione dell'incontro/confronto tra i due protagonisti, che la figura femminile affidata a Jessica Chastain per una volta contribuisce ad unire anziché a dividere. Inquieti ed eccitabili, costretti ad un costante faccia a faccia con la possibilità della morte, i due detectives sono nel posto giusto con le facce giuste: quelle di Worthington e Dean Morgan, credibili come concentrati di tensioni esasperate –tensione morale, tensione religiosa messa alla prova, tensione nervosa-, più di quanto lo sia la brava Chastain quando mena il pugno. Nonostante questo genere di racconto sia tra i più classici e mappati (e la mappa è anche un oggetto importante del film, con le sue foto di vite scomparse nel nulla), l'autrice non si appoggia a schemi di regia troppo standardizzati e sa farci entrare nel territorio d'indagine attraverso prospettive tese e sottili. Apprezziamo, dunque, l'approccio delicato al racconto di fatti brutali e lo preferiamo là dove non si compiace di far avvertire la macchina da presa, come fa invece in testa al film e in coda (con uno specchietto retrovisore che urla “papà!”), forse ancora troppo preoccupata di dover dimostrare qualcosa a qualcuno.

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