domenica 27 febbraio 2011

127 ore (2011)

TRAMA
Aron Ralston, 26 anni, entusiasta dello sport e della libertà, si concede una giornata di biking e trekking nel Blue John Canyon dello Utah. Sole, musica, paesaggi mozzafiato e un fortuito incontro con due belle escursioniste che si prestano a tuffi e risate: cosa chiedere di più? Tornato solo, però, scendendo un crepaccio, Aron smuove inavvertitamente un masso vecchio di milioni di anni e si ritrova immobilizzato, con un braccio bloccato tra questo e la roccia, praticamente senza cibo né acqua. Sopravvivrà 5 giorni in condizioni fisiche e psicologiche gravissime, arrivando, per liberarsi, a segarsi il braccio con un coltellino.
Da sempre Danny Boyle intende il cinema come uno sport estremo. Nel bene e nel male, piaccia o faccia storcere il naso, questo è il suo credo, la sua marcia. In passato, però, dopo l’incontro magico con l’immaginario di Irvine Welsh, si è spesso arrabattato per far coincidere il ritmo e il senso dei racconti con quello della sua visione e della sua macchina da presa, forzando la mano e scadendo volentieri nel virtuosismo gratuito e grezzotto.
La vicenda reale di Aron Ralston ha offerto, invece, al regista inglese ciò che attendeva da tempo (o forse eravamo noi ad attenderlo più di lui), vale a dire pane per i suoi denti, cibo per la sua mente. Boyle ri-immagina, infatti, l’esperienza estrema di Ralston con i ralenti e le accelerazioni, le soggettive impossibili e i raddoppi di formato (la telecamerina, come in The Beach) che tanto gli piacciono, ma anche con un pudore e una pulizia che non eravamo pronti ad attribuirgli.
Come il protagonista sfida se stesso e le possibilità del proprio corpo, traendone godimento, è evidente che il regista risponde con sicuro piacere alla sfida di costruire un film d’azione con un attore che non può muoversi. Eppure non è né questo, né il facile rovesciamento tra il sovraffollamento umano ritratto nelle immagini d’apertura e il vuoto che imprigiona il ragazzo in seguito o tra il caldo delle immagini cinematografiche e il freddo del testamento affidato al video, ad incollarci al film. Piuttosto è l’idea espressa in una frase dettata dal delirio, e cioè che quella pietra aspettasse Aron da quando è nato e che tutta la sua vita non fosse stata che una preparazione a quel giorno, che racchiude un’idea di cinema forte ed emozionante e fa sì che i flashback e le allucinazioni abbiano un’anima e che l’agire del nostro pensiero e quello del cinema tornino qui ad incontrarsi senza forzature, in nome di una somiglianza naturale.
Senza cadere nella recitazione del dolore, James Franco dà una bella prova del proprio talento, riuscendo col solo primo piano a costruire un personaggio pieno di contraddizioni, dalla straordinaria forza d’animo.
Al termine di un’esperienza cinematografica come questa si perdona al regista anche un finalissimo inutile, fuori stile e fuori luogo.

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