TRAMA
Prigionieri della nave corazzata Arcadia, Alice e compagni vengono attaccati da un plotone di velivoli da guerra, capeggiati da Jill Valentine, controllata dalla Umbrella tramite un medaglione. Caduta in acqua e svenuta, Alice pare risvegliarsi in una tranquilla casetta della periferia americana, dove vive sposata con Carlos, dal quale ha avuto una figlia, Becky. Ma gli zombie bussano alla porta o, per meglio dire, l’abbattono. Alice riesce a fuggire ma la attende un secondo risveglio, questa volta all’interno di un quartier generale della Umbrella. Evadere è tanto pericoloso quanto necessario.
Sembra di essere tornati in clima di guerra fredda: il più grande impero commerciale del mondo finanzia armi di distruzione di massa e ha installato la sua enorme struttura clandestina sotto i ghiacci dell’ex Unione Sovietica. Non a caso, la lotta di Alice è una lotta per la libertà, dall’alveare, prima, dal padrone di turno poi (che sia la regina rossa oppure Wesker), oltre che una lotta per la propria umanità, minacciata dai cloni ma anche, in un certo senso, dai superpoteri.
Così come non pare esserci via d’uscita dal quartier generale della matrigna corporation (le città e gli esterni in generale non sono che proiezioni olografiche generate dal computer), non c’è spazio per l’umanizzazione credibile di Alice in un film generato da un videogioco. Ed è un problema narrativo reale. La grande novità del quinto capitolo è infatti l’acquisizione dell’esperienza umanissima della maternità da parte di Alice, che si trova al momento in condizioni normali e non potenziate, ma la parabola degli eventi è quasi ridicola. Dapprima è un istinto del tutto indotto e iper narcisistico a farla agire in maniera irrazionale (rispetto alla logica da soldatessa), poi è soltanto dopo avere estratto la ragazzina da una mostruosa placenta che Alice si assume il ruolo di genitrice, avendo superato ancora una volta una prova fisica alla quale non corrisponde alcuna dimostrazione sentimentale. In conclusione, dal regime della simulazione non si scappa, e in questo senso il film ha una logica interna tanto claustrofobica quanto coerente.
Al di là della sequenza iniziale, costretta ad inventare ogni volta una formula visiva per non tediarci col piatto riassunto delle puntate precedenti, e di quella finale, che aumenta il carico del contagio e della battaglia a venire, il ventre del film è il solito percorso a tappe con abbattimento degli ostacoli, perdite sul campo, aumento dimensionale del nemico e diminuzione qualitativa della recitazione (d’altronde, con quei dialoghi non dev’essere facile fare di meglio). Crescono anche le ridicolaggini involontarie.
Giunti all’inizio della fine non resta che attendere la fine della stessa, per assicurarci l’evasione definitiva.
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