martedì 25 ottobre 2011

Paranormal Activity 3 (2011)

TRAMA
Com’è precipuo della fortunata saga, attraverso un montaggio di filmati amatoriali si passa in rassegna la travagliata infanzia di Kati e Kristi, le protagoniste adulte dei precedenti capitoli. Nel 1988, le due bambine fanno quello che è proprio della loro età: giocano, si azzuffano, campeggiano in giardino. Fino a quando alcuni inspiegabili rumori spingono Dennis, il compagno della madre Julie, a sistemare delle videocamere in alcune stanze della casa: Kristi, la più piccola, ha un amico non così immaginario che si fa sempre più invadente. Invece di procedere in avanti, il fortunato franchise derivato da Paranormal Activity, falso documentario in salsa horror diretto nel 2007 da Oren Peli, è costretto a camminare all’indietro da conclusioni che non ammettono ulteriori sviluppi narrativi. Considerato il successo di cassetta ottenuto, nel 2010 i produttori si sono permessi un secondo film, con l’efficace regia di Tod Williams, retto dagli imperativi del prequel in cui si spiegava il come e il perché la storia avesse avuto inizio. Idea non troppo innovativa, ma efficace anche per questo nuovo riavvio nel passato – tecnicamente si tratta del prequel di un prequel – dove la grammatica degli spaventi non risulta quasi per nulla mutata. Sebbene questo particolare meccanismo operativo “à rebours” sia più o meno obbligato, la sua pratica stigmatizza in maniera precisa una delle costanti di molto cinema dell’orrore contemporaneo: la spiegazione a tutti i costi, il falso mito delle origini. Sia per mancanza di idee o per giocare commercialmente la facile carta della notorietà di un marchio con buon numero di spettatori assicurati, ormai da anni il genere abbonda di beginning e reboot, prequel e spin-off che finiscono con l’abbattere ciò che davvero spaventa: l’indefinito, quello che non si deve sapere; ne consegue una messa in scena spesso condotta sul filo dell’esercizio di stile in cui la paura non può che essere epidermica. Per questo la regia a quattro mani di Ariel Schulman e Henry Joost, pur attenta a creare tensione, non può muoversi più di tanto dai paletti imposti da una sceneggiatura che mira alla coesione con gli altri capitoli. Ancora, un uso piuttosto creativo del fuoricampo – decisamente buona l’idea della videocamera settata sulla base di un ventilatore girevole a svelare inesorabilmente due punti di vista – insieme agli imprevisti agguati di bambinesca memoria conducono la sfortunata famiglia verso una soluzione del mistero con qualche assonanza con la conclusione di L’ultimo esorcismo. In definitiva si tratta di un gioco, spesso riuscito nella sua volontà di suscitare spavento, che conferma lo stato poco florido in cui versa l’horror americano.

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