venerdì 18 gennaio 2013

Django Unchained (2013)

TRAMA
Stati Uniti del Sud, alla vigilia della guerra civile. Il cacciatore di taglie di origine tedesca dottor King Schultz, su un carretto da dentista, è alla ricerca dei fratelli Brittle, per consegnarli alle autorità piuttosto morti che vivi e incassare la ricompensa. Per scovarli, libera dalle catene lo schiavo Django, promettendogli la libertà a missione completata. Tra i due uomini nasce così un sodalizio umano e professionale che li conduce attraverso l'America delle piantagioni e degli orrori razzisti alla ricerca dei criminali in fuga e della moglie di Django, Broomhilda, venduta come schiava a qualche possidente negriero. Tarantino ha in mano una storia di genere che è anche un pezzo di storia americana: il western appare dunque la scelta ideale, ma è ovviamente un western che non si colloca sotto il grande cielo della tradizione, che tutto ingloba e ridimensiona, bensì dentro un teatro (Candyland), in piena continuità stilistica e tematica con il precedente immediato, Bastardi senza Gloria. Ancora sorvegliati e sorveglianti, infatti, e ancora gioco delle parti, pericoloso ed estremo scambio delle stesse, strategia della vendetta e della messa in scena. Qui, più di prima, il piacere del cinema, di farlo così come di ammirarlo, è in ogni piega del testo: nella recitazione espansiva dei protagonisti, con le punte di diamante di Samuel L. Jackson e Di Caprio; nella potenza del dialogo (perché Tarantino sceneggiatore non è mai da meno di Tarantino regista); nell'uso della musica e degli sguardi, che ha riesumato dal cinema italiano degli spaghetti western e portato a nuovo splendore; nel gioco (la sua comparsata "esplosiva"); nella citazione omaggiante o dissacrante che sia (di Griffith, ad esempio). Tutto concorre a nutrire uno spettacolo magistrale, che si appoggia su una narrazione forte, sempre più classica e ponderosa. Nonostante il film non porti con sé nulla del meraviglioso Django di Corbucci, se non un messaggio d'amore, racchiuso nel titolo e nel refrain di Luis Bacalov, e una nota di orrore, che rima con razzismo, Django Unchained è un'opera impeccabile, interamente risolta, che procede come un lungo tapis roulant da un incipit cinico-grottesco, quasi alla fratelli Coen, verso un discorso più profondamente crudele e un riscatto totale, affidato al personaggio di Christoph Waltz, che mette a tacere qualsiasi sterile polemica. Peccato, se mai, per la brava Kerry Washington, impiegata a scopo esclusivamente funzionale, che non reca con sé alcuna memoria delle precedenti eroine tarantiniane, eppure la sua presenza basta a scaldare il film e ad evitargli la trappola del saggio freddo e cerebrale, oltre che a creare un fantasioso parallelo con la saga germanica di Sigfrido. Il piacere del testo è dunque reale, verificabile, frutto di una soddisfazione innegabile delle aspettative che avevamo riposto in esso. Eppure, direbbe Barthes, ci sono testi di piacere e testi di godimento, che eccedono la regola, causano una scossa, uno stato di spaesamento che resta indicibile. Sono quelli che Tarantino ha realizzato in passato e, purtroppo, da qualche tempo, non fabbrica più.

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