venerdì 26 ottobre 2012

Le belve (2012)

TRAMA
Ben e Chon sono due amici per la pelle che condividono tutto, dall’amore per la bella Ophelia – detta O - all’attività di coltivatori e spacciatori della miglior marijuana della California del Sud. È stato Chon, ex marine, a riportare i primi semi dall’Afghanistan, poi è venuto Ben, botanico e buddista, che ne ha fatto un prodotto sopraffino, buono per far dollari così come per alleviare il dolore dei malati terminali. La vita scorre dunque idilliaca per il fortunato trio e i loro amici, finché un brutale cartello di trafficanti messicani non decide di fare affari con loro, che lo vogliano o meno. Non c’è dubbio che una delle cose che riescono meglio a Oliver Stone sia il ritratto di uno o più personaggi che s’invischiano in qualcosa di più grande di loro: solo laddove c’è una frontiera che altri non valicherebbero, sconsigliata e inopportuna, i suoi film vibrano più di altri; il coraggio, che all’inizio può essere tanto provocazione quanto reale ardimento, si fa a quel punto materia di vita o di morte e il film diventa una strada da percorrere fino in fondo, piena di svolte imprevedibili e dissestata quanto basta per tenere alta l’adrenalina. Tutti ingredienti che non mancano certo a Le belve , ambientato a cavallo della frontiera delle frontiere, e che ne fanno uno spettacolo cinematografico assolutamente efficace, complice l’estetica acida che lo permea da cima a fondo e, pur con qualche eccesso di maniera, ben racconta il clima da paradiso perduto e da avventura folle e schizzata. C’è, però, anche un ma. Se da un lato, infatti, il regista insiste sul contrasto tra la leggerezza di una fazione e la ferocia dell’altra, tra il sole a picco sulla terrazza da sogno, da una parte, e il buio delle cantine delle torture, dall’altra, il titolo raccoglie sotto il suo ombrello sia gli uni che gli altri, il giudizio è programmaticamente bandito (perché in fondo siamo tutti dei dannati, chi più e chi meno, e il peggiore è probabilmente chi sta nel mezzo, come il personaggio di Travolta) e di questo passo il discorso di Stone finisce per farsi confuso e spesso ambiguo. Come ambiguo, al limite della truffa ai danni dello spettatore, è l’espediente del raddoppiamento finale, che accettiamo solo e soltanto perché le parole iniziali di Ophelia sono pensate per fungere da avvertimento. Come non accadeva nel suo cinema da un po’ di tempo a questa parte, inoltre, la violenza di Savages è massima, oltre che sfortunatamente plausibile, cosa che lo allontana dall’essere un prodotto per tutti i gusti ma lo riporta ad un cinema probabilmente più consono alle migliori potenzialità di Oliver Stone. Un cinema duro, di bravi interpreti, dentro ruoli di non comune sfaccettatura.

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