Proprio come già fatto ne Le onde del destino, Lars von Trier divide il suo “horror” Antichrist in capitoli. E, già dal prologo, sorprende e fa sorridere per la cosciente e furbesca ruffianeria: pare di vederselo davanti, il regista, con un sorriso sardonico stampato sulle labbra al pensiero di proporre agli spettatori questo spezzone iper-manieristico e patinato come un videoclip di Beyoncé, che mostra al ralenti una scena di sesso esplicito tra i protagonisti Charlotte Gainsbourg e Willem Dafoe, mentre il loro figlioletto s’avvicina incautamente come sotto ipnosi ad una finestra aperta e per disgrazia cade di sotto sfracellandosi al suolo, il tutto sulle note del Lascia ch’io pianga di Händel.
Poi, dal primo capitolo in avanti, lo stile cambia radicalmente per raccontare del dolore della perdita e dell’incapacità di lei di riprendersi, del tentativo di lui (psicoterapeuta) di aiutarla a superare la crisi andando alla radice di tutte le sue paure, rintracciata nella natura lussureggiante e selvaggia che circonda Eden, la loro dimora di campagna, del progressivo affermarsi del caos, della follia, dell’orrore. Sfruttando il digitale a scopi estranianti ed estemporanei, von Trier costruisce una narrazione i cui mattoncini sono quelli di temi, figure e atmosfere che vanno dall’horror psicologico (e il titolo del film richiami indirettamente Friedkin non è un caso) alle atmosfere vagamente lynchiane nel loro onirismo stralunato fino ad alcune derive del torture-porn più recente. Ma che il danese giochi e manipoli il genere, non è una sorpresa, c’era da aspettarselo: è notevole come riesca a farlo con beffada leggiadria e con un coraggio tanto sfacciato e incosciente da avvicinarsi (e per alcuni, forse, superare) i cancelli del ridicolo involontario. Né forse sorprende la volontaria e sfrontata provocatorietà di certe scene e situazioni, con compiaciute ed esplicite violenze (auto)inflitte agli organi genitali di lui e di lei. Il sadismo di von Trier è noto, anche quello nei confronti dei suoi attori: e dai volti della Gainsbourg e di Dafoe traspare davvero la fatica di girare un film di questo genere.
Quello che sorprende di più, di Antichrist, con tutte le sue manipolazioni, i vezzi, gli sberleffi e gli scherni autoriali, è la schiettezza di Lars von Trier uomo, che magari furbescamente ma pubblicamente e sentitamente ha esplicitato e messo a nudo le sue paure e i suoi lati oscuri (o quelli che gli sono stati affibiati). Perché la manipolazione e la strutturata finzione di cui si fa forte von Trier regista era già stata implicitamente confessata ne Il grande capo, ma mai forse si era entrati in un terreno tanto personale. Perché se fino ad ora la misoginia e il rapporto conflittuale con il sesso mostrato dal danese nei suoi film sono state oggetto di borbottii e considerazioni più o meno esplicite ma non hanno mai forse rappresentato il perno della discussione critica, con Antichrist l’argomento deflagra clamorosamente. Ma questa volta von Trier lo fa in maniera quasi commovente nella sua spietatezza, nella sua clamorosa (in)sincerità, nel suo mettere a nudo e martoriare i personaggi, rappresentandosi in loro, sottoponendo chi guarda e sé stesso ad una sorta di impietosa autoanalisi, tanto disturbante nei suoi ricercati estremismi quanto toccante nella sua folle lucidità. Come nelle immagini finali dove ovviamente Dafoe è von Trier, e viceversa.
Von Trier dichiara di essere il miglior regista del mondo, che i suoi film sono nelle mani di Dio, ma che forse è lui a non essere il miglior Dio del mondo. Von Trier, per sé stesso (e il pubblico) è Cristo e anticristo insieme, ama contraddirsi e contrastarsi, provocare e provocarsi. I suoi film trascendono le normali classificazioni bello/brutto, ma vivono di dicotomie altre e più complesse, analizzano il senso stesso della finzione e le dinamiche d’interpretazione. E questa volta, con Antichrist, von Trier gioca tanto con il pubblico quanto con sé stesso. Antichrist è magari definibile da alcuni come folle, sconclusionato e arrogante. Ma di questa follia e di questa arroganza, che smuovono e si dibattono, il cinema di oggi ha bisogno, che piaccia o meno. E forse, dietro questa maschera di provocazioni e arroganza, in Antichrist è rintracciabile un’umanità tanto mediata e filtrata da far intuire l’umiltà e la fragilità che vi si nascondono dietro.
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